Il valore del petrolio sta aumentando più in là delle aspettative. Cosa sta accadendo? Fin dove si spingerà? Ecco le risposte a queste domande.
Il petrolio non è solamente una materia prima di indispensabile importanza per le attività economiche e perfino quotidiane. E’ altresì un proficuo asset di investimento. Negli ultimi due anni è stato al centro di alcune vicissitudini particolari, le quali hanno contribuito ad aumentare una volatilità da lunghissimo tempo significativa. Il contesto vigente (giugno 2018) restituisce un valore del petrolio inserito in un forte trend rialzista, il quale, tra alti e bassi (e parecchi ritracciamenti), sta superando, e di notevolmente, le aspettative. In questo articolo approfondiremo l’argomento, spiegando “cosa è successo al petrolio” e illustrando le prospettive per il domani a breve e medio termine.
Valore del petrolio: dalle stalle alle stelle
Per molti anni, anche nel corso della crisi, il valore del petrolio è rimasto abbondantemente sopra i 70 dollari al barile. A un certo punto, a partire dalla fine del 2014, ha cominciato una calata vertiginosa. Ragione di questo calo, secondo alcuni analisti, è stata la difficoltà con cui la domanda generale faticava a riprendersi.
Il vero coefficiente ribassista, però, è stata la rimozione (parziale) dell’embargo all’Iran, definito e ratificato nel corso degli ultimi anni dell’amministrazione Obama. Il paese asiatico ha iniziato a commerciare più o meno liberamente il suo petrolio e l’offerta è aumentata smisuratamente. Ciò ha inciso considerevolmente sulle dinamiche del prezzo del petrolio, scaraventandolo fino ai minimi storici. La data cruciale è stata quella del 12 febbraio 2016, allorquando la quotazione è scesa sotto i 30 dollari al barile.
Un prezzo del petrolio così basso era considerato da tutti come un avvenimento molto pericoloso, in grado di causare parecchi danni alle economie esportatrici. Un esempio di ciò è dato dal Venezuela, che di export petrolifero principalmente ci vive, che proprio a causa di tale crollo è entrata in un vortice recessivo e inflattivo che ancora oggi, a due anni di distanza, non vede la fine.
A quel punto, si è determinato di correre ai ripari. Dopo lunghe trattative, l’OPEC ha imposto un taglio delle scorte, e dunque dell’offerta, a tutti i principali produttori. Alcuni hanno rispettato rettamente gli accordi, altri un po’ meno, tuttavia in linea di massima, per quanto lentamente, il prezzo del petrolio ha iniziato a risalire. Lo scopo era portare le quotazioni solidamente intorno ai 50-60 dollari.
Incombenza compiuta dopo solo un anno. Poi, è accaduto quello che pochi si aspettavano: il petrolio ha preso una impennata e ha iniziato a subire un trend rialzista inaspettato e poco controllabile. In conclusione, l’oro nero è passato dalle stelle alle stalle, rischiando di generare effetti negativi a causa, questa volta, di un eccesso di rialzo.
Perché il petrolio è aumentato di prezzo
La data più importante, in questa seconda fase, è stata il 18 maggio 2018. Il valore del petrolio, quel giorno, ha superato quota 71 dollari. E’ stato il culmine di un decorso ascendente che ha visto l’oro nero, tuttavia – come previsto e auspicato – inserito in un trend rialzista, sfiorare il +40% nel giro di un semestre.
Per inciso, un valore del petrolio troppo alto, e specialmente in crescita troppo rapida, causa squilibri paragonabili, per gravità, a quelli di un prezzo troppo basso. Il pericolo, infatti, è tra le altre cose di ridurre il potere di acquisto dei cittadini e di accrescere i costi di produzione per le aziende.
Gli analisti si sono interrogati sui motivi di questo incremento rapido e all’apparenza incontrollabile. Per fortuna, almeno da un punto di vista analitico, la situazione è apparsa chiara fin da subito. Ecco, allora, i motivi che hanno sostenuto oltre le più rosee aspettative il prezzo del petrolio (e lo stanno sostenendo tuttora oggi).
Crisi del Venezuela
Che il Venezuela se la stia passando malissimo, non è un segreto. Al contrario, è argomento quasi quotidiano dei notiziari nazionali e internazionali. Ebbene, il paese sudamericano è inserito in un circolo vizioso che si autoalimenta: è entrato in crisi (tra le altre cose) a causa del tracollo del petrolio, ma a causa della crisi che sta vivendo non riesce a impiegare l’aumento del prezzo. Anzi, sta causando l’aumento stesso.
Il motivo è semplice: la clamorosa recessione ha indebolito il Venezuela dal punto di vista fruttifero, impedendogli di fatto di fatto di esportare il prezioso oro nero a ritmi ottimali. Conseguenza: dal mercato mancano i milioni di barili venezuelano. Ebbene, riduzione progressiva dell’offerta.
I dati, da questo punto di vista, sono senza pietà, soprattutto se analizzati con una prospettiva di lungo periodo: dal 2000 ad oggi, la produzione venezuelana di petrolio si è più che dimezzata.
Crisi diplomatica USA – Iran
L’amministrazione Obama aveva lasciato un mondo occidentale pacificato verso l’Iran, il quale aveva beneficiato (e sta beneficiando) di questo nuovo corso con la possibilità di commerciare in maniera più o meno libera il suo petrolio.
Inesplicabilmente, però, Donald Trump ha deliberato di cambiare registro, inserendo l’Iran tra i paesi da vigilare con sospetto, in questo caso perché accusati di volersi equipaggiare della bomba atomica. Per inciso, ancora dal punto di vista commerciale e concreto non è stato fatto nulla, ma è ovvio: gli investitori hanno frammentariamente scontato il ripristino dell’embargo e quindi un calo dell’offerta sul mercato globale. Risultato: il prezzo del petrolio è aumentato.
Disordini in Yemen
La situazione è poco chiara ma a fare un po’ di luce è stato un singolare report di S&P Global Platts. Stando a questo documento, alcune linee di rifornimento del petrolio sono scopo delle “attenzioni” da parte di predoni del deserto. Il riferimento è ai ribelli Houthi, che inoltre attaccherebbero altresì le strutture petrolifere di Aramco. La zona sotto attacco vede transitare ogni giorno qualcosa come 4,8 milioni di barili verso Europa, Stati Uniti e Asia (a regime). Perciò, disordini in quell’area ridurrebbero la quantità di petrolio a disposizione del mercato globale, spingendo i prezzi verso l’alto (per la proverbiale legge della domanda e dell’offerta).
Caos libico
La Libia, malgrado il caos e la guerra civile che ancora oggi la devasta, è il prioritario produttore di petrolio dell’Africa. E’ evidente, però, come i disordini non favoriscano le attività di estrazioni e, principalmente, di movimentazione del petrolio. Di recente, dopo uno stallo che ha fatto bene sia alle istituzioni che alle attività economiche, si segnala un certo subbuglio, con una ripresa delle ostilità – per quanto su bassa scala – tale da limitare il numero di barili estratti e disponibili al commercio.
A prescindere dalle reali condizioni in Libia, al divulgarsi di notizie di ulteriori tumulti, gli investitori sono corsi ai ripari scontando una prevedibile riduzione dell’offerta.
I piani dell’Arabia Saudita
Per adesso, sono solo illazioni. A esporle, tuttavia, è stato Bloomberg, una delle più importanti autorità nel campo dell’informazione finanziaria. Secondo Bloomberg, il valore del petrolio starebbe salendo altresì a causa di una strategia precisa da parte dell’Arabia Saudita. Il governo saudita, appunto, starebbe auspicando un valore del petrolio introno agli 80 dollari al barile. Il motivo? Semplice: la volontà di vendere Aramco, la compagnia petrolifera statale, alle migliori condizioni possibile.
Come si evince, sono tutti fattori di natura geopolitica. Prima di tutto, sono tutti fattori in grado di restringere la lavorazione o di minacciare di farlo (gli effetti sono i medesimi, dal momento che gli investitori tendono a scontare i fenomeni futuri, se probabili). Allora, si può concludere dicendo che il prezzo del petrolio è salito oltre le aspettative giacché, al taglio dell’offerta imposta dell’OPEC, si è aggiunto un taglio “disordinato” dell’offerta causata da eventi esterni.
Il domani del petrolio
Al momento in cui scriviamo questo articolo, il valore del petrolio è protagonista di un piccolo ritracciamento. Si tratta di un andamento fisiologico, che non toglie nulla alle preoccupazioni che vedono l’oro nero in un rincaro costante, almeno fino a quando i fattori che ne stanno decretando l’avanzamento rimarranno sul tavolo.
E la apprensione, a ben osservare, è tanta e giustificata. Il pericolo, già paventato e preso in considerazione da investitori e policy maker, è quello di uno shock energetico. Se un tale evento dovesse verificarsi, il “mondo” si troverebbe di fronte a un prezzo del petrolio così alto da pregiudicare le attività economiche a tutti i livelli, e dunque da soffocare la ripresa che, malgrado siano passati dieci anni dalla grande crisi, non appare granché robusta.
L’obiettivo è arrestare il valore del petrolio, tutt’al più, vicino agli 80 dollari al barile. Se raggiungesse 90, o nientemeno 100, sarebbero guai per tutti, compresi per gli esportatori (che vedrebbero ridotti i volumi di vendita a causa di una crisi di domanda).
Da questo parere ispira fiducia la dichiarazione di intenti espressa dall’Arabia Saudita e dalla Russia. I due colossi hanno infatti paventato un programma di aumento della produzione tale, nei desiderata, da ostacolare il calo dell’offerta causata dagli eventi geopolitici descritti nel paragrafo precedente. Stando al ministro dell’energia dell’Arabia Saudita, tale Khaled Al Faleh, tale incremento potrebbe avere luogo già nel terzo trimestre dell’anno in corso.
Questo, nella più buona delle ipotesi. Altresì perché l’impegno di Russia e Arabia Saudita potrebbe non essere sufficiente. E’ quanto paventa Bank of America, che in un paper di qualche giorno fa hanno messo in campo cifre in grado di fare impensierire investitori e player economici. Il target stabilito dall’istituto statunitense, appunto, è di 90 dollari al barile entro il secondo trimestre 2019, con ampie possibilità che possa, di ostilmente, superare la soglia dei 100. Nel breve periodo, e dunque per la fine di quest’anno, Bank of America prevede un Brent a 75 dollari al barile. A quanto pare, le contraddizioni esploderanno a partire dall’anno venturo.
La conclusione dell’istituto, tuttavia, è più complessa di quanto possa sembrare. Da un lato, vi è una coscienza del pericolo di aumento dei prezzi, dall’altro mantiene la porta aperta a un contenimento degli stessi: “E’ ammissibile che l’offerta petrolifera generale si riduca a causa del continuo collasso della produzione venezuelana, oltre che a causa dei rischi di un abbassamento delle esportazioni di greggio dall’Iran. Inoltre, c’è secondo noi un’alta probabilità che l’OPEC collabori con la Russia nel 2019 per istituire una soglia dei prezzi del petrolio”.
Sullo sfondo, come citato dalla Bank of America, i problemi sul fronte geopolitico. Il Venezuela è in un circolo vizioso dal quale sembra impossibile che possa uscire in tempi brevi. Il contesto diplomatico internazionale è tutt’altro che promettente, con focolai di crisi pronte a esplodere, il Medio Oriente versa in uno stato più caotico che mai.
La fiducia è che l’OPEC possa prendere in mano le redini della situazione con la medesima decisione che ha dimostrato durante la fase discendente del prezzo. All’epoca, per quanto le trattative si fossero rivelate complicate, l’istituto ha saccente mettere in campo strumenti efficaci.